La Giogana d’autunno, una foresta incantata

Come Appennini scopre il mar Schiavo e il Tosco, del giogo onde Camaldoli si viene.
(L. Ariosto, Orlando Furioso, XVI sec.)

Questi sono i versi dedicati a Poggio Scali, dove ci siamo diretti una domenica mattina di mezzo-novembre. Carlo aveva già parlato di Poggio Scali nel reportage Sul tetto del Parco, in versione estiva e con base all’Eremo, noi abbiamo invece fatto il percorso dal Prato alla Penna, già ben piazzato sul GEA/00 e quindi col cammino costantemente sullo spartiacque tra Toscana e Romagna. Siamo partiti con un bel sole e assenza di vento in una limpida giornata autunnale per fotografare i colori del bosco…. e ci siamo trovati sulla cima con una temperatura di -2°C, peraltro prevista, ma con condizioni climatiche assolutamente inusuali, almeno per le nostre zone: appena scesi dall’auto ci hanno accolto i colori dell’autunno contornati di bianco per un fenomeno chiamato calabrosa. L’effetto come potete vedere era bellissimo e quasi surreale: un cielo terso, azzurro, i rossi e i gialli dell’autunno, il tappeto di foglie a terra e sugli alberi questo strano ghiaccio, quasi una nevicata.

Gli arabeschi gelati che brillavano nel primo sole contrastavano con i colori autunnali e con i prati ancora verdeggianti, il vento leggero faceva volare di tanto in tanto una spolverata di ghiaccio, sulle foglie colorate. Siamo rimasti incantati, poi ci siamo scatenati ad osservare in dettaglio e fotografare quello spettacolo così insolito e affascinante. Dopo un’ora di camminata già qualcuno aveva esaurito la card in fotocamera e doveva anzitempo intraprendere una dolorosa selezione di immagini. Non so se le foto riescono a dare l’idea ma vi assicuro che c’erano momenti veramente incantati e le viste mozzafiato erano come sottolineate dal fenomeno naturale.

 


Di buon’ora alla bottega di Camaldoli (sosta tattico-logistica…), sapevamo che avremmo trovato vento fresco in quota e che gli addensamenti di cresta si sarebbero presto dissolti. Arrivati però a Prato alla Penna, abbiamo sì trovato il nebbione in ritirata, lasciando il posto allo sperato schietto sole, ma lasciandosi pure dietro i fantasmagorici effetti di supersolidificazioni di goccioline acquee sotto l’incalzante e freddo grecale. La curiosità di scoprire dettagli dell’inconsueto effetto, che non è la semplice brina, ha fatto ritardare di una mezz’ora la vera missione, mentre anche Gianfranco si immedesimava nel pellegrino dei tempi bui. L’occasione ha anche visto il ritorno di Franco alla scarponata, dopo diversi mesi di assenza.

 


Lorenzo, regista del sito: «Molti confondono il termine “calabrosa” con il termine “galaverna”: beh, che dire, sono due cose diverse ma possiamo dire con parentele strette. La galaverna richiede piccole dimensioni delle gocce di nebbia, temperatura bassa, ventilazione assente, accrescimento lento e dissipazione veloce del calore latente di fusione. Quando questi parametri cambiano si hanno altre formazioni, come per esempio la calabrosa, che si forma quando le gocce di nebbia sono più grosse e il vento è più forte.»
La calabrosa, come già riporta la citazione di Lorenzo, è una forma particolare di brina parente della galaverna. Quest’ultima assume leggiadre strutture aghiformi, il cui accrescimento avviene per lenta calata dell’umidità in certe condizioni di stratificazione termica. Se invece incalza l’insistente azione di un vento gelido, l’umidità va ad accrescere particolari strutture solide, che nei ramoscelli assumono tipiche forme a pettine, molto bianche, il cui accrescimento è ovviamente controvento. Non a caso, si tratta dello stesso fenomeno tanto temuto sulle ali degli aeromobili e che senza de-icing può anche portare a guai seri. E giurerei che è lo stesso fenomeno, più macroscopico ma anche più mimetizzato, dei “rivestimenti aerodinamici” sulle antenne della SRI nell’articolo sul Falco nevoso. La pervasività sui lati esposti è notevole e la consistenza, data la non trascurabile densità, può anche giungere a provocare danni meccanici alla vegetazione arborea. Di quest’ultimo fatto ce se ne accorge dalla quantità di conci tirati giù dal vento e dai fastidiosi impatti provocati. Ecco perché i cappucci, oltre che per l’implacabile vento! Sensazionale poi la “capigliatura” di ghiaccio filiforme riscontrata su un bastone.

 

Sul percorso lungo lo 00, si costeggiano due riserve: quello di Sasso Fratino sul versante Romagnolo e quello della Pietra sul versante toscano, entrambe integrali e vietate anche ai pedoni. Il cammino, a parte gli inevitabili saliscendi, è ampio e agevole ed è conosciuto anche come “la Via dei legni”. Di qui sono passati per secoli gli enormi tronchi che venivano trascinati da carovane di buoi fino a raggiungere l’Arno e poi per via d’acqua (fluitazione) arrivare fino a Firenze e Pisa, dove venivano usati come travi per le grandi chiese o per le alberature della flotta pisana e livornese.

 


Nessuna foto, men che meno i nostri dilettanteschi scatti, può anche lontanamente scimmiottare le sensazioni del luogo: una foresta incantata, i contrastanti e saturi colori dello spesso fogliame sul terreno, del grigio della corteccia di faggio, del bianco della spessa calabrosa sulla nuda ramificazione, l’azzurro del cielo e – qua e là – del verde del muschio. Vero, cercavamo i colori dell’autunno, ma tutto quel bianco era inatteso…

 


I particolari effetti cromatici diventano sgargianti sotto lo schietto cielo in corrispondenza delle belle praterie di Prato al Soglio e le radure del Giogo Seccheta con vista sul colle del Porcareccio. Le zone ancora al paggìo sembrano assolutamente innevate mentre le aree assolate creano fulgenti contrasti cromatici. Si noti lo svolazzare di conci di calabrosa, che in faccia fanno pure la bùa.

 

In alcuni tratti del GEA è obbligatorio – per legge o per natura – restare sul sentiero, ma anche dove non è stato possibile entrare nel bosco lo spettacolo era comunque assicurato, con tratti coperti dagli alberi parzialmente gelati e brillanti al sole. Raggiungiamo Prato al Soglio e il panorama si apre su praterie dove i colori dell’erba al sole, delle foglie rosse a terra e dei rami gelati nell’ombra e parzialmente coperti di foglie colorate, contrastano con il cielo azzurro limpido, l’aria che si respira è leggera e frizzante, non resistiamo alla tentazione di fermarci a gustare tutto quel ben di Dio e magari fare un “richiamo” di colazione. Ripartiamo rientrando nel bosco che sfocia ancora in brevi e affascinanti radure, Giogo Seccheta e La Scossa, passiamo accanto alla fonte del Porcareccio, sotto l’omonimo Passo, dove un timido zampillo (quasi insperato in questi aridi frangenti) dà un connotato palustre al sottostante pratello.

 


La bellezza dell’ambiente fa sì che si arriva alla rampa finale del Poggio Scali senza quasi accorgersene. E neanche ci si accorge del fiatone una volta arrivati in cima, dato l’impagabile spettacolo che si apre alla vista. Il Pisanino si distingue abbastanza bene, radente al fianco del Falterona che dista da qui 11 km: c’è foschia sul lato toscano ma è nulla in confronto alla grigia melassa in cui è immerso tutto lo scenario romagnolo! Sembra proprio un liquido viscoso, grazie all’effetto di impeccabile livellamento all’orizzonte (addio Adriatico!). Dalla cima sono ben percepibili le differenze sui fianchi montani, con quelli esposti a grecale sonoramente imbiancati.

Dalla base, prima del rush di salita, si ha una timida finestra sullo sbarramento di Ridracoli, di sghimbescio al ramo del Molinuzzo, 5 km giù a nordest. La vista, peggiore del precedente reportage di Simone, è raccapricciante: l’invaso è quasi vuoto e la Romagna in piena emergenza idrica.

 

 


Guardando verso sudest la vista abbraccia la coda dell’Appennino Settentrionale. Centrando sull’inconfondibile landmark del sacro monte, alla sua sinistra si ha il Monte Dei Frati (Alpe della Luna) con intravisione del Catria, mentre a destra spunta il Castello (Catenaia). La foschia impedisce di vedere oltre, ma è già tanto così: in estate, il fitto muro di fogliame tarpa praticamente tutto. Carpegna e Fumaiolo sono leggermente più a sinistra ma comunque occlusi dalla foschia.

 

Continuiamo a salire e dal versante romagnolo, lì sotto, si intravedono panorami con i colori dell’autunno che spiccano al sole tra le Marne biancastre, incorniciati dai grandi faggi gelati, aggrappati al precipizio, mentre sul lato toscano, completamente al sole, il bosco scende regolare sottolineato da un folto tappeto di foglie. Da una piccola radura vediamo Poggio Scali ormai vicino, iniziamo la soleggiata salita, comincia quasi a far caldo. Carlo è il primo ad arrivare in cima, lo raggiungiamo e restiamo incantati: non so se fa sempre questo effetto ma la vista quasi a trecentosessanta gradi dalla Romagna al Casentino, dal Pratomagno alle Apuane, fino a ritornare dietro di noi al Fumaiolo, il Carpegna, Catenaia, l’Alpe della Luna, alla Verna, ci fa sentire più vicini al cielo, per quanto si sia solo a 1520m. Dopo aver fotografato a iosa (e capite che qui ce n’é solo una minima parte!), ci siamo fermati semplicemente ad ammirare, ad ascoltare, a respirare …. Insomma ci è quasi dispiaciuto scendere dall’altro lato e proseguire fino al “balconcino” di bellavista su Sasso Fratino, sotto la “quota 1506” dove ci siamo fermati per il pranzo, seduti sotto enormi blocchi sovrastati dalle radici sporgenti dei grandi faggi. E ovviamente ne valeva la pena.

 


Scavalcato lo Scali e proseguendo a nordovest (sempre GEA/00) verso il Pian Tombesi, si giunge ad una zona assai dirupata verso la Romagna e la vista, da alcuni balconcini strategici, va giù a picco sulla selvaggia riserva di Sasso Fratino, oltre che alla solita melassosa vista (si fa per dire) sulla pianura romagnola in direzione di S. Paolo in Alpe. La stretta crestina è talmente spazzata dai venti che la vegetazione arbustiva è letteralmente obliqua. Nel caso contingente, vista di profilo, sembra una siepe di Swarovski! Segue l’anonimo e arenaceo cocuzzolo di “quota 1506”, dalla cui sommità (raggiungibile con qualche cautela e tenendo comunque presente che dall’altro lato si va giù a picco per diverse centinaia di metri) si gode una superba vista attraverso contorti o decadenti fusti di faggio. Il cocuzzolo scherma il GEA dal vento e così, sul lato assolato e alla poventa, ci siamo goduti il lauto pranzo.

 


La missione puntava ai colori d’autunno. In quota abbiamo poi trovato ben altro ma lungo la via del rientro, transitando da Moggiona, qualcosa di classico si è comunque visto…

 

Arriva infine il momento del giro di boa e si prende la via del ritorno, gustando ancora la vista del bosco e del panorama pomeridiano e che a distanza di poche ore sembra diverso e inedito, dove il ghiaccio ormai sciolto lascia vedere di nuovo il legno e i prati con nuovi caldi colori. Scendendo verso valle, parliamo del fatto che spesso le nostre passeggiate ritornano in questi luoghi senza mai stancarci né annoiarci… e come potrebbero annoiare spettacoli come quello che abbiamo vissuto stamattina?

 


Saluti da Gianfranco Landini & Carlo Palazzini