C’era un castello… però quello vero!

Monologo introduttivo
A marzo 2011, dietro una genuina ma sprovveduta eccitazione, veniva pubblicato l’articolo C’era un castello. Non so come i visitatori della pagina non abbiano poi lasciato post di ingiurie o proteste, sta di fatto che, pur in buona fede, il soggetto-castello (nella fattispecie, la posizione e i miseri resti) veniva sensibilmente dislocato e in particolare rilocalizzato in corrispondenza del grande rudere pericolante di Villa Chiaromanni, il casolarone lungo il CAI 102 poco prima che questo si tuffi su Gigliano e Chiassaccia. Qualche mese dopo, casualmente sfogliando un libro di storia aretina e che citava l’argomento, ecco alcune frasi sibilline che fanno sorgere l’atroce dubbio: ma la locazione del castello o rocca di Pietramala non è magari sull’anonimo colle lì sopra, quota 494 (e ogni carta riporta una quota diversa), senza neanche una degna segnalazione o almeno un sentiero cristiano, e non già lungo il 102 alias la via di Pietramala-Anghiari come sventolato da più parti?

Sonore ricerche su autorevoli bibliografie e … ma certo che è così! E non è tanto per la sessantina di metri di distanza ma sono proprio i resti stessi di testimonianza che fanno la differenza! Beh, rischi del fai-da-te, poco male, lo facciamo per divertirci, però c’era stato fatto un web-articolo e quindi… eccomi qua a fare pubblica ammenda e promuovere un articolo riparatore. Si è però voluto nuovamente attendere la stagione fredda per motivi scenici e per la migliore vivibilità dell’area (no aspidi e ufo-tafanoidi). [Carlo]

 


Giungendo al crocevia del monumento a memoria dell’eccidio nazista, la prosecuzione secondo il CAI 102 porta al falso castello alias villa diroccata, come già descritto nel primo articolo (traiettoria gialla). Per giungere direttamente al vero sito del fu maniero di Pietramala occorre invece prendere l’anonima pista segnata in azzurro. Le altre varianti, in fucsia, descrivono tra l’altro anelli locali e nel contesto non ci interessano.

 

Il citato articolo originale, prescindendo dall’identificazione della roccaforte, già dava qualche spolverata storica sull’argomento e non è certo nostra intenzione (e manco competenza) approfondire ulteriormente. Però si può riportare qualche gustoso brano in tema e magari in lingua d’altri tempi. Iniziamo con la voce tratta dal noto Dizionario Geografico Fisico Storico della Toscana del Repetti, 1833 (vedasi anche la scheda sintetica UniSi ).

PIETRAMALA D’AREZZO nel Val d’Arno aretino. Rocca diruta, presso la quale fu una chiesa parrocchiale (S. Pietro) riunita a quella di S. Bartolommeo a Gello, nella Comunità Giurisdizione Diocesi e Compartimento di Arezzo, la qual città trovasi 4 miglia toscana al suo libeccio.
I ruderi di cotesta rocca si veggono tuttora sopra il risalto di un poggio situato fra Gello e Pagognano a cavaliere dell’antica strada mulattiera fra Arezzo ed Anghiari.
Fu sede dei potenti Tarlati i quali si dissero perciò da Pietramala stati capi della fazione ghibellina in Arezzo, dove signoreggiarono specialmente dopo che per lo valore del vescovo Guido Tarlati quella famiglia andò talmente crescendo in potere che essa sola si era in certo modo impadronita della madre patria, ed in molte altre terre importanti del suo contado con assolato e libero potere dominava. Sennonchè nell’anno 1338 Pier Saccone e Tarlato Tarlati di lui fratello a nome di tutta la consorteria de’ Pietramalesi rinunziarono per 10 anni al Comune di Firenze ogn’impero e giurisdizione che in qualunque maniera avevano in Arezzo, nel suo contado e distretto ad eccezione di alcuni loro castelli.
Era la rocca di Pietramala abitata e guardata da Marco figliuolo del potente Pier Saccone Tarlati, quando nel 1384 la città di Arezzo ritornò sotto il dominio de’Fiorentini; il quale Marco avendo ricusato di rendere quel castello col fidarsi della fortezza del luogo dove s’era rinchiuso, fu circonvallato dalle armi de’Fiorentini che vi costruirono intorno alcune bastie per abbatterlo; sicchè il Tarlati fu costretto il di 16 agosto dello stesso anno di rendersi a patti, fra i quali uno fu questo, che Marco di Pier Saccone con la sua moglie figliuola del prefetto di Roma e tutta la sua famiglia uscissero liberi dalla rocca di Pietramala, la quale doveva consegnarsi al conte Carlo de’Conti Guidi da Battifolle, e da questo ai Fiorentini dopoché Marco ne avesse levato tuttociò che voleva. […] In conseguenza di ciò il Castello di Pietramala per ordine del Comune di Firenze venne tosto diroccato.

 


Il poggetto laggiù in fondo, presunto obiettivo, non si presenta certo in modo plateale ma il gruppetto di cipressi attrae sicuramente l’attenzione. La pista devia a nord ma ormai sotto allo strano rilievo si esce dal tratturo e si arranca a stile libero, non essendo visibili percorsi specifici. Ma il versante ricco di pietre di sicura provenienza edilizia la dice ormai lunga. Sulla sommità si cominciano ad intravedere forme non troppo naturali…

 

Un altro brano, forse di stampo un po’ guelfo…

Dopo queste cose, si mosse guerra a’ figliuoli di Saccone, i quali innanzi avevano preso e ancora possedevano molte castella vicine alla città. Contra a costoro furono mandate le genti, le quali tolsono loro molte castella in brieve tempo, e assediarono Marco primo figliuolo di Saccone, uomo maligno, nel castello di Pietramala.
Questa ossidione durò alquanti mesi: e all’ultimo, mancando la speranza all’assediato, s’accordò con patto d’esser salvo, e dette il castello, il quale fu subitamente disfatto insino a’ fondamenti, con grande letizia di chi voleva bene vivere: perocchè quel castello era stato ricetto di latrocinii e di prigioni e una vituperosa bottega di cose inique.
[Leonardo Bruni “Aretino”, Istoria Fiorentina, 1861 (su LiberLiber)]

La storia la scrivono i vincitori, previa distruzione di precedenti o avverse testimonianze, quindi … Sembra però che effettivamente le due potenti casate che grande avevano fatto Arezzo, i Tarlati e gli Ubertini, avessero ormai perso quelle condotte peculiari di chi scrive orgogliosamente la storia e anzi se le davano di santa ragione come una vile guerra tra meschine bande rivali, per fini privati e con la città che ne fece le spese. Sembra una cronaca attuale …

 


E sulla sommità si cammina sopra i miseri resti dei locali interrati della rocca e dei basamenti dei muri sui quali si ergeva il probabile torrione posizionato quassù, estremo baluardo dei residenti, a presidio di locali, alloggi e altre strutture di supporto, circondato dalle mura perimetrali di difesa. Man mano che l’occhio si adatta, i resti, numerosi ma ben compenetrati o sepolti da secoli di vegetazione selvaggia, cominciano ad essere chiaramente distinguibili. Tutti i versanti del cocuzzolo sono disseminati di pietre murarie, alcune ben vestite da muschio senza tempo altre stranamente pulite. Presumibilmente costituito da due cinte murarie con torri, l’insediamento fortificato fu fondato o ricostruito su precedenti ruderi alla fine del XII sec. da parte della famiglia longobarda dei Tarlati detti appunto di Pietramala. Non è che qui siano avvenuti grandi eventi, o massacri come a Campaldino, ma l’ambiente incute comunque certe ataviche sensazioni. E un dovuto rispetto.

 


Setacciata l’area apicale del castello, si può scendere alla ormai ben nota e diroccata villa Chiaromanni attraverso un breve pendio non del tutto agevole e il cui percorso va comunque intuito seguendo i resti di mura e accumuli di detriti. Si sbuca sul terrazzamento accanto alla villa, notando che il percorso inverso è presieduto da un curioso e stinto cartello di divieto.

 


Dai terrazzamenti posti tra la villa e il guado del Giglione (o Borro di Misciano-Vezzano) si può avere una veduta comprensiva dei punti topici. Il nido di cipressi immediatamente sopra i ruderi della villa segnano il sito del vero castello. O perlomeno della sua roccaforte, dato che la fitta presenza di gradoni e manufatti nell’area, secondo il Tafi, suggerisce che le diverse cinte murarie del castello si spingessero almeno fino alla villa, dove forse vi era l’entrata stessa della fortificazione.

 

Infine abbiamo una collana di inizio secolo scorso:

La gloria medioevale d’Arezzo tramonta coll’astro dei Tarlati, ma non tramontò senza vendetta. Cacciati, perseguitati di luogo in luogo, come bestie malefiche, per aver venduto una seconda volta la città a Firenze, i Tarlati si estinsero e il castello feudale di Pietramala fu distrutto.
L’ira popolare rispettò il sepolcro del vescovo Guido, ma si sfogò contro gli altri personaggi di casa Tarlati, i capi di parte ghibellina, che adornano gli intercolunni al di sotto della cassa mortuaria. Le loro teste furon tutte decapitate, e solo nel 1783 rifatte in gesso.
[Giannina Franciosi, Monografie illustrate, Italia artistica: Arezzo – Ist. It. Arti Grafiche, 1909]

Forse questa la ragione per cui l’area, anziché divenire una curata attrazione storica, culturale e naturalistica è stata come dolosamente trascurata e obnubilata? Anche mons. Tafi fa notare il degrado che ha assalito lo storico sito confrontando la realtà degli anni 1960-70 con la testimonianza riportata in “Una gita a Pietramala nelle camperie aretine” del nobile Giovanni Guillichini, che di lì passeggiò nel 1837. Oggi è pure peggio.

 


Attraversati i due guadi, nella contingenza assai a corto d’acqua ma comunque da attraversare non senza qualche difficoltà, ci si parano i ruderi ben infrascati del Molino di Pietramala o del Falchi (secondo il Bacci, proprietà di Falchi Domenico) ma spesso segnato come “del Falco” sulle carte, che nel primo articolo non venivano immortalati causa esaurimento mem-card (o era una scusa per tornarci?). Nessuna idea a quando risalgano le strutture originarie. Poco più su, le spallette ormai quasi indistinguibili di un antico ponte testimoniano – sempre secondo don Bacci – andamenti viari diversi dagli stradelli attuali nella risalita verso Ca’ de Pecato e Ripa di Scanna (la sella tra il M. Castiglione e Poggio Gallorini che porta a Montemercole).

 


Nell’articolo originale venne scherzosamente definito “il rifugio CAI di Vezzano”. Probabilmente nel tempo è stato assai rimaneggiato ma i sacri testi lo individuano come Hospitale per viandanti lungo la nota via. Visto dal posteriore rivela i diversi corpi di fabbrica e strutture di contenimento che sicuramente di secoli ne hanno visti.

Bibliografia minimale (oltre quella già citata in brani):

  • Don Antonio Bacci, Strade romane e medioevali nel territorio aretino, Calosci
  • Mons. Angelo Tafi, Immagine di Arezzo, Calosci

Conclusa – ora per davvero – la missione primaria, approfittiamone ora per dirne qualcuna sulla vegetazione. Nell’ambientazione della scarponatina in contesto, la vegetazione e il terreno sono composti da boschi di querce, pini, cipressi, aceri, frassini: è il paesaggio tipico delle colline aretine, dove al limitare della macchia si vede dovunque l’intervento dell’uomo con campi lavorati, pascoli, terrazzamenti con muri a secco, olivi e vigneti colorati dall’autunno.

Nelle nostre colline si trova però anche una straordinaria varietà di piante e arbusti che in questo periodo accendono il bosco di mille colori. A volte nella composizione dei giardini si vanno a ricercare piante strane ed esotiche che spesso mal si combinano con il paesaggio circostante, ma forse non conosciamo i gialli e i rossi delle foglie del frassino o del moro (il gelso coltivato vicino alle case coloniche per il baco da seta) o ci meravigliamo a vedere un’alberello rosso come fiamma, un sorbo, contro il verde scuro di un cipresso.

 


 Come non incantarsi davanti ad un corbezzolo, detto anche rosello, l’albero tricolore che proprio a novembre-dicembre sfoggia la sua bellissima livrea con i fiori bianchi e i frutti rossi dentro il verde vivo delle foglie? Una pianta spontanea che spesso non consideriamo neppure è il comunissimo acero campestre, il “testucchio” o albero della vite, quello che veniva potato fortemente e usato come sostegno delle viti quando non si facevano vigne intensive ma si piantavano solo ai margini dei campi. In foto un acero campestre che sostiene una vite e la stessa pianta lasciata invece crescere liberamente (Parco Pertini). Abbiamo poi la rosa canina, ora spruzzata di rosso per le sue bacche, che si coprirà di innumerevoli roselline dai delicati colori, le eriche, che noi chiamiamo “scope” sempreverdi e tra poco piene di fiorellini odorosi.

 


 L’inconfondibile ginepro, alberino spinoso sempreverde, è una pianta particolarmente dotata di virtù: le bacche, di colore nero-azzurro, impiegano due anni a maturare e sono usate in fitoterapia per la cura della calcolosi urinaria, dei reumatismi e per l’eliminazione dell’acido urico e della gotta. Con il distillato, il cui principio aromatico è antisettico e battericida, si possono curare le affezioni bronchiali ed è indicato nelle malattie infettive delle vie urinarie e nelle cistiti croniche. Con un infuso di bacche si ottiene un buon diuretico e, si dice, l’urina si fa più abbondante ed emana un odore di violetta. E forse non tutti sanno che le bacche sono anche l’elemento base per la preparazione del gin. Non provate a farvelo da soli ma quando vedete un ginepro, consideratelo con rispetto perché è una pianta preziosa oltre che una specie protetta.

 


 Nonostante l’autunno inoltrato e il tappeto di foglie che ricopre il suolo, occorre sempre guardare dove si mettono i piedi per non rischiare il dramma… Timidi e sparuti fiorellini campestri trovano luogo anche in questa stagione, come il ciclamino e la pervinca. Per non dire di farfalle ritardatarie… Un aiuto: qualcuno sarebbe così gentile da dirci come si chiama il fiorellino tenuto in posa dalle dita (e che ovviamente NON lo hanno colto)?

Saluti da Carlo Palazzini e Gianfranco Landini