Dall’Eremo alla Diga di Ridracoli

Ci sono molte zone estremamente attraenti del nostro beneamato Parco che, da un punto di vista pratico, ci rimangono fuori portata per una ragionevole giornata di diletto scarponatorio, data l’assenza di adeguati collegamenti viari di trasferimento. Sottolineiamo “ragionevole giornata”, rimanendo ovviamente fuori dal discorso pernottamenti locali da una parte, o trasferimenti veicolari anda-rianda in proprio (=kamikaze) dall’altra.
Ecco allora che se qualcuno (che se ne intende, visto che si tratta della sezione CAI di Arezzo) organizza un’appetitosa traversata dall’Eremo di Camaldoli alla diga di Ridracoli con relativi trasferimenti in pullman, la cosa diviene un’occasione da non perdere!

 

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Siamo a metà maggio 2014 e la notte prima dell’atteso evento la città è investita da un temporale niente male. Ora, dato che il percorso prevede gli Scalandrini all’ingiù, cosa già antipatica di per sé e figuriamoci col fondo fradicio, qualche brividino investe gitanti e direzione. Ma – incredibile – arrivati all’Eremo scopriamo che lì, di temporali recenti, manco l’ombra e tutto è piacevolmente asciutto al punto giusto. Col senno del poi, vista l’annata, diciamo che è stato un bel colpo di c***!

 

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All’Eremo, un po’ di tempo per prepararsi, rifocillarsi, conoscersi, per una visitina in chiesa e poi via su verso il Prato alla Penna (CAI 74). Visto che le salite in programma sono minime, raggiungiamo poi Passo Fangacci via formale 00/CT anziché con la comoda provinciale.

 

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Nel piazzale del rifugio, una nutrita comitiva è già al lavoro per un succulento desinare comprensivo di pasta manufatta in loco. Ahimè non è per noi e quindi, dopo aver profferito riverenze e complimenti, ci tuffiamo giù per gli Scalandrini (CAI 227).

 

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Il terrazzino belvedere al solito rappresenta un milestone dove tirare un fiato (all’insù) e dare uno sguardo alla valletta-eden della Lama e ai marnosi contrafforti d’appennino romagnolo. Poco sotto, usciamo dal percorso segnato, affrontando con dovuta prudenza il tratto pendente che scende alla parte bassa della famosa cascata. È un tratto infidamente scivoloso verso il dirupato Fosso, una decina di metri lì sotto, da non prendere alla leggera! A seguito del nostro scouting giunge il gruppo e Renato, direttore di gita, provvede a stendere un provvidenziale corrimano per il superamento dell’ultimo, insidioso tratto.

 

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Questi e altri scatti testimoniano come ogni invernata chieda il suo prezzo, secondo la spietata legge di natura. Ma è giusto così, purché l’unico attore rimanga – appunto – la natura.
Fa un certo effetto, dopo tante precedenti “salite”, percorrere all’ingiù lo scalandrino manufatto. E si conferma che le salite sono sì stancanti ma meglio si adattano alla fisiologia dello scarponatore…

 

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Giunti alla Lama, si passa subito ad assolvere il piacevole dovere alimentare. Chi lo fa dal canonico tavolino, chi da spaparanzato sul prato in riva al mormorante torrente. Per superare poi la fase post-ingozzo, niente di meglio che passeggiare per questa perla granducale.

 

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L’esuberante e variegata vegetazione della Lama, anche senza contare l’arboreto, riesce a incantare anche chi non distingue una sequoia da un acero…
Costante riferimento dominante di sfondo, il Monte Penna.

 

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Lo stradello che porta verso la Fonte Solforosa, qui siglato MTB7, è la sede della vecchia ferrovia che proviene dal Cancellino (ne avevamo parlato in questo post) e quindi vi troviamo anche i relativi cippi chilometrici. Questo, in particolare, è l’ultimo, il ventesimo. Con Franco però ci avventuriamo anche su uno stretto passaggio a mensola tra il piano stradale e l’incassato Fosso della Lama, che si cimenta anche in fragorose rapide e cascatelle. Ad ogni piazzola dello stradello, troviamo poi dei manufatti lignei di cui non capiamo la destinazione: qualcuno può aiutarci?

 

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Visto che è praticamente in itinere, d’obbligo una fermata alla Fonte Solforosa, dove beviamo qualche sorsata d’acqua dal sapore (e odore) un po’ rivoltante ma che i nostri vecchi ritenevano terapeutica. E sembra che avessero ragione, grazie alle riconosciute proprietà antiossidanti dell’idrogeno solforato.

 

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Lasciamo infine lo stradello ferroviario imboccando il CAI 235 che ci fa in breve perdere i 150m di dislivello per portarci al pelo d’acqua dell’invaso pieno (quota 557 m), dove cogliamo tra le ombrose fronde i primi biancheggianti riflessi dei costoni marnosi sulle verdi e placide acque. In attesa del nostro rendez-vous, approfittiamo per una foto di gruppo che mette a dura prova la stabilità del pontone galleggiante d’attracco…

 

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Puntualissimo e tutto per noi, ecco che arriva l’esclusiva del luogo, il silenzioso battello elettrico che ci porterà ora per i tre chilometri di distanza liquida che ci separa dalla diga. A bordo, personale esperto spiega le varie e peculiari caratteristiche dell’opera tecnica e dei suoi particolari riflessi nella spettacolare ambientazione circostante. Ogni insenatura, ansa o meandro è un crogiuolo di natura, un habitat pullulante di vita in ogni forma e genere, il tutto debitamente tutelato e protetto.

 

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Il natante procede più o meno a 4 nodi, velocità che sembra supersonica rispetto al desiderio di poter meglio osservare e assaporare tutto quel ben di dio che ci circonda. Dopo la fermata presso Ca’ di Sopra (bel rifugio che ha comunque una ricettività ben maggiore di un semplice rifugio…), diventano sempre più evidenti i dettagli della chiusa e delle infrastrutture di contorno. Per l’occasione, come anche si intuisce dal franco di scolmo, l’invaso è pieno al 97%, il che significa 32 milioni di metri cubi. Per farsi un’idea di corposa tracimazione (cosa non rarissima) si può dare un’occhiata a questo video.

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Lo sbarco avviene in prossimità della frequentata struttura di ristoro (il sole picchia e gelati e bibite vanno a ruba). Qua sotto passano le condotte che alimentano una centrale idroelettrica a qualche chilometro a valle. Un tunnel pedonale porta al citato Ca’ di Sopra lungo un Sentiero Natura.

 

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Il lato concavo che mostra il “piede” della diga. Sono quasi cento metri di salto (nel lato convesso sono più di cento). Il corso d’acqua in uscita è il Bidente di Ridracoli.

 

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Un chilometro quadrato di specchio acqueo, incastonato nel versante romagnolo dell’appennino, opera ingegneristica di non trascurabile spessore. Tutto il territorio circostante, inoltre, è ben ricco di sentieri incantevoli che uniscono numerose reliquie di un passato neanche troppo remoto in cui si campava (meglio, si sopravviveva, forse…) delle risorse locali.

 

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Qui siamo sul lato “villaggio” (fabbricati tecnici, di servizio, espositivi e altro), dove sono anche disponibili pannelli e plastici che illustrano genesi e funzionamento dell’opera. Più a destra, sul ramo del Molinuzzo, un lungo canale sotterraneo (“di gronda”) va a collegarsi coi Bidenti di Campigna e delle Celle e oltre, diversi chilometri a NW: una sorta di approvvigionamento supplementare in caso di bisogno, visto che molta Romagna si disseta con quest’acqua.
Laggiù, in fondo al ramo principale dal quale siamo giunti, la familiare sagoma del Penna.

 

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Suona infine l’adunata, è l’ora di dirigersi al parcheggio dove ci aspetta il pulmino. Tunnel d’uscita e alcune “smussature” comprese, sono un paio di chilometri di tornanti d’asfalto che ci portano 120m più in basso, dove è stato realizzato un parcheggio turistico adiacente al Bidente di Ridracoli. Durante il lungo e tortuoso ritorno in pulmino (via Ridracoli, S. Sofia e S. Piero in Bagno, dove si imbocca alfine la E45) si fa crepuscolo, si smangiucchia una pseudo-cena e si pisola pure… vantaggi della gita organizzata!

 

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Il tracciato complessivo, costituito da 14 km a piedi (inclusi i vagheggiamenti vari) e 3 km in battello, con ascensioni totali per 350 m e discese per 1 km.

 

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Dettaglio su diga e invaso. L’interruzione di tracciato tra chiusa e discesa al parcheggio è ovviamente dovuta al tunnel.

Riferimenti:

  • la pagina CAI Arezzo che informa e dettaglia sulla relativa iniziativa di calendario;
  • dati (anche real time) sulla diga e informazioni turistiche varie;
  • il sito della società di gestione;  contiene molte informazioni e dati (storici e real time);
  • qualche approfondimento tecnico e di costruzione (comprese foto dei cantieri) da parte di uno degli artefici;
  • cartografia: Foreste Casentinesi (IGA n° 20) oppure carta ufficiale PNFCMF&C (Selca, 5a ed.).

saluti a tutti da Carlo e Franco, oltre a un caloroso ringraziamento a CAI Arezzo per l’opportunità!